"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

13 novembre 2017

La tenaglia irachena. Cristiani dopo il Daesh

By Avvenire
12 novembre 2017
Fulvio Scaglione 

Sembra un paradosso e non lo è: la situazione dei cristiani iracheni potrebbe peggiorare ora che, dopo oltre tre anni atroci, la sconfitta militare di Daesh è diventata realtà. Per rendersene conto bisogna ricordare alcune dinamiche degli ultimi anni. Dopo l’invasione anglo-americana del 2003, e a causa della successiva ondata di violenze terroristiche e settarie, i cristiani iracheni (poco meno di un milione per tre quarti cattolici caldei, dimezzati nei primi cinque anni dopo l’invasione) scelsero in sostanza due strade: l’emigrazione all’estero (allora andava bene anche la Siria) oppure il trasferimento nel Nord del Paese, verso Mosul e la Piana di Ninive, che erano la culla del cristianesimo iracheno e comunque erano meno tormentate da bombe, sparatorie e rapimenti.
Era l’epoca in cui molti, soprattutto tra i policy makers anglosassoni, ipotizzavano di creare non solo un Iraq federale con tre entità autonome per sunniti, curdi e sciiti, ma anche di costituire un safe haven (porto sicuro) per i cristiani proprio nella Piana di Ninive. Una specie di "riserva indiana" per una minoranza pacifica, disarmata e proprio per questo colpita da tutti.
Gli anni intanto trascorrevano e per i cristiani erano alle porte nuovi cambiamenti. Il Kurdistan, in perenne conflitto con il Governo centrale di Baghdad e sempre legato al sogno dell’indipendenza, estendeva pian piano la propria influenza politica verso Sud e verso Ovest, cioè verso la Piana. Il patto offerto ai cristiani era piuttosto esplicito: tolleranza e protezione in cambio di voti, quelli necessari a far prevalere la causa curda nel sempre annunciato (o minacciato?) referendum sullo status di Kirkuk, il grande centro petrolifero che, con le sue raffinerie e i giacimenti, avrebbe fatto da motore al Kurdistan indipendente.
Poi, nel 2014, è arrivato Daesh. L’atteggiamento dei curdi nei confronti dei cristiani è stato ambivalente. I famosi peshmerga non si sono battuti per Mosul né per la Piana, troppo lontane dai loro territori e dai loro interessi, ma il Kurdistan ha accolto decine di migliaia di profughi cristiani, salvando loro la vita.
E siamo all’oggi. Sembra impossibile che, come dicevamo all’inizio, possa andare peggio dopo un simile tormento. Ma la presenza di Daesh aveva surgelato ogni questione, mentre ora tutto si muove. E tra tanti vasi di ferro che si scontrano, il vaso di coccio dei cristiani, nel frattempo scesi ancora di numero, può finire davvero in frantumi.
Masoud Barzani, padre-padrone del Kurdistan, ha cercato di sfruttare la sconfitta di Daesh per arrivare subito all’indipendenza ma è stato abbandonato da tutti, anche dai tradizionali protettori Usa. Quindi, prima domanda: se i rapporti tra i curdi e il Governo di Baghdad erano già tesi prima, e non meno tesi erano quelli tra i potentati che si spartiscono il Kurdistan, il clan Barzani e il clan Talabani, che succederà ora? E che sarà delle masse di profughi cristiani che ancora sono ospitate tra Erbil, Dahuk e altre località del Kurdistan?
La regione curda non verrà certo invasa, ma rischia di pagare il boicottaggio contemporaneo di Turchia (che controlla il traffico di petrolio), Iran e Iraq (che da anni non versa quanto spetta alla provincia autonoma). Non c’è il rischio che decida di liberarsi di un "peso" come quello costituito dai profughi? E che fine faranno le opere per loro edificate con gli aiuti internazionali, primo fra tutti quello della Chiesa?
Seconda domanda. È chiaro che l’ipotesi di un Iraq federale non ha più corso e che, al contrario, il Governo centrale, dominato dai partiti sciiti e di stretta osservanza pro-Iran, opera per una ri-centralizzazione del Paese. Altrettanto chiaro è che oggi, negli equilibri di potere iracheni, gran peso hanno le Forze di mobilitazione popolare, le milizie a maggioranza sciita (con qualche reparto anche cristiano) che si sono battute contro Daesh e sempre più somigliano a una versione irachena dai pasdaran iraniani, custodi della rivoluzione islamica.
Ora che i curdi sono stati ricacciati nel Kurdistan propriamente detto, i cristiani possono fidarsi di queste milizie, spesso accusate di violenze contro civili inermi e sospettate di scarsa fedeltà alla causa? I cristiani della Piana di Ninive avevano già un grosso problema: come tornare ai villaggi e alle case e incontrare i vicini di casa musulmani sunniti, tra i quali non pochi che si erano scagliati per primi, come narrano diverse testimonianze, contro di loro alle avvisaglie dell’arrivo di Daesh? Forse ora, con le milizie sciite insediate nel territorio e pronte a nuove repressioni, il problema raddoppia? La Chiesa caldea dell’Iraq, con grande coerenza, è sempre stata contraria sia alla spartizione federalista del Paese sia all’ipotesi di un safe haven per i cristiani.
L’idea era che solo uno Stato unitario e laico, cioè uno Stato in cui ogni cittadino gode di eguali diritti perché iracheno e non di diritti variabili in base all’appartenenza etnica e religiosa, potesse garantire anche i cristiani. Giusto così. Ma oggi è quella la prospettiva dell’Iraq finalmente libero da Daesh? O non sta invece spuntando all’orizzonte uno Stato confessionale come il vicino Iran?